Basta andare a Taranto e farsi una passeggiata
lungo la ventina di chilometri degli invalicabili recinti dell’Ilva,
con i suoi 1500 ettari – le dimensioni di una media città italiana
– l’acciaieria più grande d’Europa. Chiunque
capirebbe che i politici, burocrati e manager impegnati ogni giorno
nelle concitate riunioni romane sul destino dell’azienda sono
tessitori di un grande inganno. Basta guardare la gigantesca rete che
Emilio Riva,
il tycoon siderurgico morto l’anno scorso, fece issare attorno
al parco minerali per proteggere il quartiere Tamburi
dalle polveri cancerogene alzate dal vento. Può una rete
fermare la polvere? “Sì, se il calibro della rete è inferiore a
quello delle polveri”, spiega un autorevole
ingegnere cercando di non ridere. Il calibro delle
particelle pm10 è inferiore a dieci millesimi di
millimetri: l’unico modo di proteggere il Tamburi sarebbe stato
fare al parco minerali un cappottino di Goretex su
misura. La taglia è 75 ettari.
A Taranto la rete per fermare la polvere è la
misura di tutto. Può una popolazione sentirsi dire che la rete
fermerà la polvere senza perdere il controllo dei nervi? Sì. La
maggioranza dei tarantini da
decenni tace e subisce
la logica folle della storia. L’Ilva sta morendo e il
governo, fingendo di curarla, ne accompagna distrattamente
l’agonia. “Torno a Natale”, aveva detto Matteo Renzi
a settembre, nel suo unico frettoloso passaggio, poi
è andato a sciare a Courmayeur. La messa in
scena ha un solo risultato possibile,
un ingente passaggio di denaro dalle tasche dei contribuenti
a quelle dei creditori dell’Ilva in dissesto
finanziario, in primo luogo naturalmente le banche.
L’agonia clandestina, come in un racconto di
Buzzati
Viene in mente Sette piani, il racconto
di Dino Buzzati da cui Ugo Tognazzi
trasse un celebre film, Il fischio al naso. Ricoverato per
un banale controllo, l’industriale lombardo, accompagnato da
sorrisi e frasi rassicuranti, parte dal piano terra e viene spostato
gradualmente fino al settimo, dove morirà. Così
l’Ilva da tre anni attraversa un incubo di piani di
risanamento, decreti legge, commissariamenti e
subcommissariamenti, e ogni volta qualcuno annuncia che è la volta
buona. Intanto la fabbrica, formalmente sotto sequestro,
cade letteralmente a pezzi. Al
suo capezzale un plotone di medici pietosi: tre commissari
governativi, tre custodi giudiziari, un custode
amministrativo, un commissario per le bonifiche, e con loro
Andrea Guerra, consigliere per l’industria di Renzi.
Dovrebbero risolvere un’equazione impossibile: tenere in vita
un’azienda che inquina, perde 30 milioni al mese,
viene abbandonata dai clienti e ha 3 miliardi di debiti.
Il 26 luglio 2012 intervenne la magistratura arrestando
lo stato maggiore dell’Ilva, a cominciare dai Riva. La
fabbrica fu messa sotto sequestro come si toglie la
pistola dalle mani del serial killer, per impedire la
prosecuzione del reato. Non fu uno sconsiderato blitz ecologista. Le
indagini andavano avanti da anni. Da mesi il Noe
di Lecce (Nucleo Operativo Ecologico), cioè i
Carabinieri e non Greenpeace, rilevava quantità sconcertanti
di veleni che l’acciaieria produceva con arrogante
noncuranza. Era il Noe a chiedere al procuratore della Repubblica di
Taranto, Franco Sebastio, urgenti “misure
cautelari”. Sebastio aveva già ottenuto due volte dai giudici la
condanna di Riva per inquinamento, nel 2002 e nel 2007.
L’Ilva non è un paradiso. In vent’anni ha avuto 50
incidenti mortali in azienda. Tuttora premia con un buono
acquisto da 100 euro all’Auchan gli operai dei
reparti con un basso numero di “infortuni indennizzati”. E
siccome è difficile credere che un operaio abbia bisogno
dell’incentivo per stare attento a non rompersi un braccio, è
possibile che quel premio incoraggi le mancate denunce.
Non lavorava in paradiso neppure Francesco
Zaccaria, gruista volato in mare da 60 metri con la sua
cabina nell’area Impianti Marittimi il 28 novembre
2012. Le Tv dettero la colpa alla tromba d’aria
“assassina” che quel giorno travolse Taranto, ma al processone
“Ambiente svenduto” sono imputati anche alcuni
dirigenti accusati di omicidio colposo per la morte
di Zaccaria.
Nell’estate 2012, furono però messe in scena la commedia della
sorpresa e quindi la farsa dell’emergenza,
condizione necessaria per il passo logicamente successivo: non fare
niente. L’emergenza era costituita dai magistrati
che “all’improvviso” dicevano basta al reato di inquinamento,
flagrante e sfrontato. “Non si può uccidere così
un’azienda decisiva per il Paese”, tuonavano gli
industrialisti. “Bisogna salvare 17 mila posti di lavoro”,
urlavano sindacalisti di ogni colore. I magistrati
che avevano deciso il sequestro degli impianti inutilmente provarono
a difendersi dall’accusa di seminare miseria: come
arrendersi a quel malinteso senso di responsabilità secondo il
quale, a fronte di una soddisfacente dose di prosperità economica,
si può fissare una quantità accettabile di malattia e morte? Il
partito industrialista allora guidato dal ministro dell’Ambiente
Corrado Clini (in
seguito arrestato per altro tipo di inquinamento, quello dei suoi
conti in banca) sancì l’ovvio: lavoro e salute possono
convivere. La traduzione pratica del sacrosanto principio è stata
che si possono fare gli interventi di risanamento
degli impianti compatibili con il conto economico. Cioè il poco o
niente fatto da Riva dal 1995 al 2012. L’importante è sfornare a
getto continuo piani, progetti, protocolli d’intesa,
lettere d’intenti, appendici, atti aggiuntivi, note a margine. Se
potessimo monetizzare ogni nuovo nome per pezzi di carta inutili,
l’Italia non avrebbe debito pubblico.
Giovedì 12 febbraio, il sindaco di Taranto, Ippazio
Stefano, imputato assieme ai Riva e ai loro presunti
complici nel processo “Ambiente svenduto”, ha offerto alla città
un saggio mirabile dell’arte dell’inerzia. Con
il commissario alle bonifiche Vera Corbelli ha
solennemente firmato un nuovo protocollo d’intesa che finalmente
darà il via alle bonifiche. Non che mancasse un
accordo tra commissario e Comune, ma Corbelli ha detto che quello
firmato dal suo predecessore non funzionava. “Mi sono insediata lo
scorso agosto e ho cominciato a comprendere la situazione di
Taranto”, ha detto Corbelli che è forestiera. Molto determinata:
“Il governo vuole investire, il premier Renzi l’ha
detto: partiamo da Taranto”. Il sindaco, parimenti focalizzato
sull’operatività, ha detto: “Basta con gli impegni, adesso
passiamo ai fatti concreti”. Dopo tre anni, era
ora.
Partono le bonifiche, in dosi omeopatiche
Ed
ecco i fatti concreti. Dei 110 milioni stanziati tre
anni fa dal governo per le bonifiche fuori del perimetro aziendale
finalmente si spenderanno i primi due: bonifica delle aiuole
del quartiere Tamburi, quelle da anni vietate al gioco dei bimbi. Su
un totale di 3,6 ettari (lo 0,1 per cento della
superficie da bonificare), verranno sostituiti con terra pulita i
primi 30 centimetri di terreno. Un milione di metri cubi di terra
inquinata, a 2 euro al metro cubo. Si può stimare che a Taranto
uguale trattamento lo meritino un paio di miliardi di metri
cubi di terra inquinata: fanno 4 miliardi di euro. A chi ha
chiesto che senso abbia bonificare mentre l’Ilva continua a
spargere i suoi veleni, i tecnici del Comune hanno risposto che
tanto, per tornare all’inquinamento di oggi, ci vorrebbero
150 anni alle emissioni attuali: centocinquanta anni.
Su un totale di 3,6 ettari (lo 0,1 per cento
della superficie da bonificare), verranno sostituiti con terra pulita
i primi 30 centimetri di terreno
Taranto è dunque davvero avvelenata. Non dipende dai magistrati
talebani il divieto di allevare le mitiche cozze del Mar
Piccolo, che da secoli venivano squisite grazie a sorgenti
sommerse di acque dolci. Adesso arrivano diossina,
benzo(a)pirene e tutti gli altri veleni che hanno inquinato la falda
acquifera. Neanche il divieto di pascolo per un raggio di 20
chilometri intorno all’Ilva è un’invenzione giustizialista. Due
settimane fa, la Asl di Taranto ha trovato pieni di
diossina i 64 bovini dell’allevatore Giuseppe Chiarelli,
di Massafra, dieci chilometri dall’Ilva. Subito è
partito l’ordine di abbattimento dei capi di bestiame,
mentre il Pd di Massafra, ostentando sorpresa, ha chiesto
l’immediata, drammatica convocazione del consiglio comunale.
Comunque si giri, il discorso non sta in piedi. Un mese fa il
siderurgico di Cremona Giovanni Arvedi, in corsa per
acquisire l’Ilva, in audizione al Senato, ha detto: “Taranto deve
risolvere per primo il problema ambientale, bisogna coprire il parco
minerali (un miliardo di euro, ndr) e installare
l’aspirazione totale delle cokerie, che producono
benzo(a)pirene e pm10. Bisogna rendere l’Ilva pulita e farla andare
al massimo”. Il conto dei siderurgici esperti è presto fatto. Per
rimettere in carreggiata l’Ilva occorrono da subito: 300
milioni per coprire le perdite dei prossimi 12 mesi, 500 per
ricostituire le scorte, il cosiddetto capitale circolante, 300 per
dare una sistemata a impianti abbandonati a se stessi che ormai
producono acciaio scadente, e poi 200 milioni per rifare l’altoforno
5, un paio di miliardi per adeguare gli impianti alle prescrizioni
dell’Aia (autorizzazione integrata ambientale).
I contribuenti pagheranno, le banche incasseranno
Siamo
a 3,3 miliardi che servono alla Newco, cioè la
nuova società statale che prenderà in affitto l’azienda. In
più dovrà pagare l’affitto al commissario Piero Gnudi,
che non avrà altri proventi per pagare i creditori dell’insolvenza
da 3 miliardi. E quanto sarà il canone? Nessuno ne
parla, perché è il tema più imbarazzante. Alcuni esperti
sostengono che per un impianto che macina perdite al
ritmo di 30 milioni al mese, l’affitto non può che essere
simbolico. Però si tratta di una fabbrica che, costruita nuova,
costerebbe 20 miliardi: il governo può sempre trovare una
perizia che stimi l’equo affitto anche in 4-500 milioni.
Denaro dei contribuenti che, senza ragione, verrebbe iniettato
direttamente nelle casse dei creditori, in particolare le
banche. Dei 3 miliardi di debiti dell’Ilva, infatti, 1,45
miliardi sono riferibili alle banche, di cui 900 milioni fanno capo a
Intesa Sanpaolo.
Non c’è investimento pubblico in grado di ricomprare i clienti
perduti
Se Guerra ripetesse il miracolo dell’acciaio di Stato riuscito
nel Dopoguerra a Oscar Sinigaglia, tra tre o quattro
anni potrebbe privatizzare l’Ilva risanata, ricavandone alcuni
miliardi che andrebbero a Gnudi, cioè, di nuovo, ai
creditori. I contribuenti non rivedrebbero
più i soldi pubblici spesi per l’Ilva, ma l’azienda e i posti
di lavoro sarebbero salvi. Purtroppo lo scenario più
realistico è un altro. L’Ilva non si risolleverà perché non ha
più manager capaci: per guidare la città dell’acciaio, con i suoi
11mila dipendenti diretti e i 5mila indiretti, ce ne vogliono tanti.
Poi non c’è investimento pubblico in grado di ricomprare i clienti
perduti. Lo stesso Arvedi rivela di non comprare più
dall’Ilva le abituali 500mila tonnellate all’anno (sarebbero
state il 10 per cento della produzione 2014) perché la qualità non
è più all’altezza. Sarà difficile trovare acquirenti per una
fabbrica sotto sequestro che continua a inquinare e per la quale non
sono esclusi nuovi capitoli giudiziari, visto che i
Carabinieri non smettono di rilevare superamenti dei limiti. I
concorrenti non si strapperanno i capelli se chiuderà un produttore
da 9 milioni di tonnellate, visto che l’Europa ha
una sovracapacità produttiva di 30 milioni. Gli ambientalisti non si
dispiaceranno se con l’Ilva chiuderà anche la fabbrica del veleno.
Il governo potrà dire di aver fatto di tutto per salvare ambiente e
posti di lavoro, e darà la colpa, nell’ordine: ai
magistrati, agli ambientalisti, ai politici locali e ai sindacalisti.
E tutti insieme, quelli che oggi fanno finta di non
sentire, non capire e non vedere, ci spiegheranno, attorno al 2020,
quali sono gli errori da non ripetere.
da il Fatto Quotidiano del 19 febbraio 2015
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