Ilva: l’accordo che rinvia i tanti problemi
Le perdite
L’accordo ribadisce che, a regime, lo
stabilimento di Taranto produrrà otto milioni e mezzo di
tonnellate, impiegando 10.700 dipendenti: attualmente ne fa meno
della metà e perde tra i due e i due milioni e mezzo di euro al
giorno. Oggi, in Europa, c’è un netto surplus di produzione di
acciaio rispetto alla domanda; tenuto conto dell’andamento
economico poco brillante di fine
2019 e della crisi innescata dal Coronavirus, è francamente
difficile dire se e quando saranno avverabili quelle previsioni.
Ne consegue che i conti dello
stabilimento e del gruppo resteranno in rosso ancora per un po’
e Arcelor dovrà continuare a bruciare cassa.
Gli investimenti
Ma non basta: gli impianti vanno
rinnovati. In questo periodo si parla molto dei
forni elettrici: sicuramente sono meno inquinanti rispetto agli
altoforni, con conseguente miglioramento della situazione
ambientale tarantina. L’operazione però è tutt’altro che
semplice e ha costi significativi.
Per farli funzionare occorre avere a
disposizione il materiale “pre-ridotto”, che si ottiene
trattando minerali di ferro con un processo di riduzione con
idrogeno; questo, a sua volta, va miscelato con altri materiali
ferrosi. Entrambi i processi richiedono l’impiego del gas al
posto del carbon fossile: da qui il minor inquinamento.
Vi è però un problema di costi. Il forno elettrico funziona se si ha il
gas in casa o se si ha la possibilità di acquistarlo a prezzo
basso. È ben vero che il nuovo gasdotto che arriva dalla Turchia
tocca terra in Puglia ma nessuno, fino a oggi, è stato in grado
di dimostrare che questo tipo di approvvigionamento abbia un
costo compatibile con l’equilibro economico dello stabilimento
di Taranto riconvertito alla nuova tecnologia e, più in
generale, dell’intera ex Ilva.
Lo Stato e le banche
Vi è poi il problema della composizione
societaria di AmInvestco o del nuovo veicolo che sarà costituito
per gestire l’ex Ilva. Qui entrano in scena due attori: lo Stato
e le banche.
Entro il 30 novembre dovrà essere
definita la partecipazione pubblica, ma non è ancora stato
individuato quale sarà il soggetto a cui sarà affidato questo
compito e, ancora prima, non sono neppure state avviate le
perizie necessarie per la valutazione dell’azienda e la
definizione delle rispettive quote del capitale sociale.
A questa partita dovranno, gioco forza,
iscriversi anche le banche. Vantano crediti ingenti, che però
hanno garanzia inferiore rispetto ai prestiti effettuati dallo
Stato per cui, in caso di fallimento, rischiano di non incassare
gran parte delle anticipazioni erogate: da qui l’ipotesi di
trasformarne una quota in capitale.
Al 30 novembre l’ex gruppo Ilva potrebbe essere di proprietà di una società a tre
teste: Arcelor Mittal, Stato e banche. Ma il condizionale è
d’obbligo. L’accordo firmato la scorsa settimana prevede che il
colosso franco indiano possa recedere dalla società versando una
penale di cinquecento milioni. E non è da escludere che si avvalga di questo diritto di recesso.
Il diritto di recesso
Tre indizi puntano in questa direzione. Il primo è l’andamento economico
negativo, a cui accennavamo sopra: difficile pensare che il
mercato dell’acciaio riparta nell’arco
dell’anno. Il
secondo è la fuoriuscita dell’alta dirigenza del gruppo: ancora
prima che Arcelor avviasse l’azione giudiziaria volta alla
risoluzione del contratto di affitto con Ilva in amministrazione
straordinaria, il gruppo franco indiano aveva ritirato
dall’Italia la sua prima linea di manager per sostituirla con
dirigenti italiani.
Il terzo indizio è la totale scomparsa
dall’accordo e da ogni genere di discussione dello scudo penale,
che era una delle garanzie richieste da Arcelor per continuare a
gestire la siderurgia italiana, visto lo stato degli impianti.
*****
Lo
Slai cobas per il sindacato di classe esprime la sua netta
contrarietà al nuovo accordo
governo/Ilva/ArcelorMittal
e invita i lavoratori e tutte le organizzazioni sindacali presenti in
fabbrica a dire un chiaro NO e a contrastare questo piano
innanzitutto con la mobilitazione generale dei lavoratori, pur
tenendo conto dei limiti e problemi posti dall'emergenza coronavirus.
La
trattativa in merito a questo nuovo accordo, a quanto si dice, sarà
conclusa con le organizzazioni sindacali entro maggio, ma non si può
assolutamente pensare che essa possa avere alcun esito positivo per i
lavoratori senza la loro scesa in campo in tutte le forme necessarie.
Diciamo
NO all'accordo perchè prevede cose assolutamente negative: il
definitivo abbandono dei lavoratori attualmente in cigs in Ilva AS;
una cigo permanente che permette ad ArcelorMittal di modulare i
volumi produttivi secondo le sue necessità; e un nuovo consistente
esubero dei lavoratori AM, in nessun modo copribile con la cosiddetta
newco per il preridotto.
Nello
stesso tempo i volumi produttivi possono essere raggiunti solo con
un'intensificazione dello sfruttamento - meno operai e stessa o più
produzione –, un peggioramento dei diritti e delle condizioni di
lavoro e di conseguenza un aumento della insicurezza in fabbrica. E'
inutile dire i gravi riflessi di questo accordo per gli operai
dell'indotto.
Tutto
l'accordo è fatto all'insegna del mantenimento e incremento della
mannaia ricatto di ArcelorMittal. AM con questo accordo si è data
ampia possibilità di sfruttare fin quando gli è utile o di
minacciare di andarsene quando vuole, in questa condizione AM non ha
interesse a risanare gli impianti, e gli incidenti continueranno.
Questo ricatto finora ha pagato innanzitutto sgravando AM dei soldi
da versare e ottenendo un'autostrada verso un accordo sindacale
peggiore di quello, già pessimo, del settembre 2018.
Questo
ricatto ora agisce permanentemente, ma tale è perchè non è vero
che per ora AM non vede l'ora di andarsene, ma vuole fino in fondo
sfruttare la situazione; dato che questo stabilimento è strategico
nell'attuale crisi mondiale e guerra commerciale della siderurgia, in
particolare nel mercato europeo e non è sostituibile né nei piani
di AM né tantomeno nei piani dell'industria siderurgica italiana e
dei padroni italiani utilizzatori dell'acciaio.
L'ingresso
dello Stato, delle Banche nel pacchetto azionario di AM non è una
cosa positiva in sé, perchè è all'insegna della logica dei padroni
in un'economia capitalista: socializzare le perdite, scaricare sullo
stato le spese di ambientalizzazione, salvaguardare e privatizzare i
profitti e gli interessi dei padroni dell'acciaio. D'altra parte
questo ingresso dello Stato non è in grado di salvaguardare né
occupazione, né condizioni di lavoro, né in maniera seria far
avanzare il processo di ambientalizzazione e di tutela della salute
degli operai e della popolazione dei quartieri inquinati.
Noi
pensiamo che al
piano padroni/governo, bisogna
opporsi e lottare per un piano alternativo, a 'Fabbrica aperta',
facendo leva su una difesa rigida degli operai considerati un
tutt'uno, sia quelli in produzione, sia quelli in cigo, sia in cig
straordinaria - questo tutela anche gli operai dell'indotto.
Ai
volumi produttivi richiesti da padroni, Stato, Banche, ecc. bisogna
opporre la piena
occupazione, la difesa del salario e la rigida difesa delle
condizioni di sicurezza e di controllo delle emissioni,
anche con una postazione ispettiva generale interna alla zona
ArcelorMittal. Gli unici esuberi che si possono accettare sono quelli
legati alla volontarietà e soprattutto all'applicazione massiccia
del prepensionamento,
non solo per l'amianto, lavoro usurante, ma secondo la parola
d'ordine lanciata da sempre, innanzitutto dallo Slai cobas per il
sindacato di classe, di “25
anni bastano”, in
siderurgia e in particolare a Taranto dove ha anche un valore
risarcitorio.
Siamo
inoltre per riduzione
d'orario a parità di paga,
come rivendicazione generale che vale in periodi di crisi e di
emergenza non solo per l'ex Ilva ma per tutte le realtà industriali
in crisi in Italia.
Per
ottenere questi risultati ci vuole una lotta vera, una trattativa
vera. E questa non si può fare se gli operai non hanno una propria
rappresentanza sindacale di classe autonoma realmente da padroni,
governo e dalle attuali direzioni sindacali confederali – che
purtroppo hanno fallito e la bandiera della difesa dell'accordo del 6
settembre 2018 è un'arma spuntata.
Solo
la presenza e la rappresentanza Slai cobas sc è in grado di
difendere, pressare e influire sulla situazione verso un accordo
migliore per i lavoratori.
L'Usb
non è più questo tipo di sindacato. La scelta suicida della
“chiusura della fabbrica” sotto la definizione ipocrita di
“chiusura delle fonti inquinanti”, pone l'Usb alla coda
dell'ambientalismo antioperaio e antindustriale e del suo
utilizzatore finale, il sindaco di Taranto, Emiliano, gli
ingannapopolo degli M5S, ecc., che lungi dal tutelare la salute e la
città associano gli operai alle responsabilità dei padroni per gli
effetti dannosi sulla salute e l'ambiente e pretendono, cancellando
la fabbrica e i lavoratori, di risolvere il problema, trasformandoci
in una nuova Bagnoli, in una terra dell'assistenza e dell'economia
parassitaria.
La
strada del cambiamento in fabbrica e in città passa per l'unità tra
classe operaia e masse popolari.
TA.
11.3.20
SLAI
COBAS per il sindacato di classe
Nessun commento:
Posta un commento