venerdì 13 marzo 2020

Ilva - Da Novi Ligure sull'accordo - il volantino dato dallo Slai cobas mercoledì alla fabbrica

Ilva: l’accordo che rinvia i tanti problemi

Le perdite
L’accordo ribadisce che, a regime, lo stabilimento di Taranto produrrà otto milioni e mezzo di tonnellate, impiegando 10.700 dipendenti: attualmente ne fa meno della metà e perde tra i due e i due milioni e mezzo di euro al giorno. Oggi, in Europa, c’è un netto surplus di produzione di acciaio rispetto alla domanda; tenuto conto dell’andamento economico poco brillante di fine 2019 e della crisi innescata dal Coronavirus, è francamente difficile dire se e quando saranno avverabili quelle previsioni.
Ne consegue che i conti dello stabilimento e del gruppo resteranno in rosso ancora per un po’ e Arcelor dovrà continuare a bruciare cassa.
Gli investimenti
Ma non basta: gli impianti vanno rinnovati. In questo periodo si parla molto dei forni elettrici: sicuramente sono meno inquinanti rispetto agli altoforni, con conseguente miglioramento della situazione ambientale tarantina. L’operazione però è tutt’altro che semplice e ha costi significativi.
Per farli funzionare occorre avere a disposizione il materiale “pre-ridotto”, che si ottiene trattando minerali di ferro con un processo di riduzione con idrogeno; questo, a sua volta, va miscelato con altri materiali ferrosi. Entrambi i processi richiedono l’impiego del gas al posto del carbon fossile: da qui il minor inquinamento.
Vi è però un problema di costi. Il forno elettrico funziona se si ha il gas in casa o se si ha la possibilità di acquistarlo a prezzo basso. È ben vero che il nuovo gasdotto che arriva dalla Turchia tocca terra in Puglia ma nessuno, fino a oggi, è stato in grado di dimostrare che questo tipo di approvvigionamento abbia un costo compatibile con l’equilibro economico dello stabilimento di Taranto riconvertito alla nuova tecnologia e, più in generale, dell’intera ex Ilva.
Lo Stato e le banche
Vi è poi il problema della composizione societaria di AmInvestco o del nuovo veicolo che sarà costituito per gestire l’ex Ilva. Qui entrano in scena due attori: lo Stato e le banche.
Entro il 30 novembre dovrà essere definita la partecipazione pubblica, ma non è ancora stato individuato quale sarà il soggetto a cui sarà affidato questo compito e, ancora prima, non sono neppure state avviate le perizie necessarie per la valutazione dell’azienda e la definizione delle rispettive quote del capitale sociale.
A questa partita dovranno, gioco forza, iscriversi anche le banche. Vantano crediti ingenti, che però hanno garanzia inferiore rispetto ai prestiti effettuati dallo Stato per cui, in caso di fallimento, rischiano di non incassare gran parte delle anticipazioni erogate: da qui l’ipotesi di trasformarne una quota in capitale.
Al 30 novembre l’ex gruppo Ilva potrebbe essere di proprietà di una società a tre teste: Arcelor Mittal, Stato e banche. Ma il condizionale è d’obbligo. L’accordo firmato la scorsa settimana prevede che il colosso franco indiano possa recedere dalla società versando una penale di cinquecento milioni. E non è da escludere che si avvalga di questo diritto di recesso.
Il diritto di recesso
Tre indizi puntano in questa direzione. Il primo è l’andamento economico negativo, a cui accennavamo sopra: difficile pensare che il mercato dell’acciaio riparta nell’arco dell’anno. Il secondo è la fuoriuscita dell’alta dirigenza del gruppo: ancora prima che Arcelor avviasse l’azione giudiziaria volta alla risoluzione del contratto di affitto con Ilva in amministrazione straordinaria, il gruppo franco indiano aveva ritirato dall’Italia la sua prima linea di manager per sostituirla con dirigenti italiani.
Il terzo indizio è la totale scomparsa dall’accordo e da ogni genere di discussione dello scudo penale, che era una delle garanzie richieste da Arcelor per continuare a gestire la siderurgia italiana, visto lo stato degli impianti.

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Lo Slai cobas per il sindacato di classe esprime la sua netta contrarietà al nuovo accordo
governo/Ilva/ArcelorMittal e invita i lavoratori e tutte le organizzazioni sindacali presenti in fabbrica a dire un chiaro NO e a contrastare questo piano innanzitutto con la mobilitazione generale dei lavoratori, pur tenendo conto dei limiti e problemi posti dall'emergenza coronavirus.
La trattativa in merito a questo nuovo accordo, a quanto si dice, sarà conclusa con le organizzazioni sindacali entro maggio, ma non si può assolutamente pensare che essa possa avere alcun esito positivo per i lavoratori senza la loro scesa in campo in tutte le forme necessarie.
Diciamo NO all'accordo perchè prevede cose assolutamente negative: il definitivo abbandono dei lavoratori attualmente in cigs in Ilva AS; una cigo permanente che permette ad ArcelorMittal di modulare i volumi produttivi secondo le sue necessità; e un nuovo consistente esubero dei lavoratori AM, in nessun modo copribile con la cosiddetta newco per il preridotto.
Nello stesso tempo i volumi produttivi possono essere raggiunti solo con un'intensificazione dello sfruttamento - meno operai e stessa o più produzione –, un peggioramento dei diritti e delle condizioni di lavoro e di conseguenza un aumento della insicurezza in fabbrica. E' inutile dire i gravi riflessi di questo accordo per gli operai dell'indotto.

Tutto l'accordo è fatto all'insegna del mantenimento e incremento della mannaia ricatto di ArcelorMittal. AM con questo accordo si è data ampia possibilità di sfruttare fin quando gli è utile o di minacciare di andarsene quando vuole, in questa condizione AM non ha interesse a risanare gli impianti, e gli incidenti continueranno. Questo ricatto finora ha pagato innanzitutto sgravando AM dei soldi da versare e ottenendo un'autostrada verso un accordo sindacale peggiore di quello, già pessimo, del settembre 2018.
Questo ricatto ora agisce permanentemente, ma tale è perchè non è vero che per ora AM non vede l'ora di andarsene, ma vuole fino in fondo sfruttare la situazione; dato che questo stabilimento è strategico nell'attuale crisi mondiale e guerra commerciale della siderurgia, in particolare nel mercato europeo e non è sostituibile né nei piani di AM né tantomeno nei piani dell'industria siderurgica italiana e dei padroni italiani utilizzatori dell'acciaio.
L'ingresso dello Stato, delle Banche nel pacchetto azionario di AM non è una cosa positiva in sé, perchè è all'insegna della logica dei padroni in un'economia capitalista: socializzare le perdite, scaricare sullo stato le spese di ambientalizzazione, salvaguardare e privatizzare i profitti e gli interessi dei padroni dell'acciaio. D'altra parte questo ingresso dello Stato non è in grado di salvaguardare né occupazione, né condizioni di lavoro, né in maniera seria far avanzare il processo di ambientalizzazione e di tutela della salute degli operai e della popolazione dei quartieri inquinati.
Noi pensiamo che al piano padroni/governo, bisogna opporsi e lottare per un piano alternativo, a 'Fabbrica aperta', facendo leva su una difesa rigida degli operai considerati un tutt'uno, sia quelli in produzione, sia quelli in cigo, sia in cig straordinaria - questo tutela anche gli operai dell'indotto.
Ai volumi produttivi richiesti da padroni, Stato, Banche, ecc. bisogna opporre la piena occupazione, la difesa del salario e la rigida difesa delle condizioni di sicurezza e di controllo delle emissioni, anche con una postazione ispettiva generale interna alla zona ArcelorMittal. Gli unici esuberi che si possono accettare sono quelli legati alla volontarietà e soprattutto all'applicazione massiccia del prepensionamento, non solo per l'amianto, lavoro usurante, ma secondo la parola d'ordine lanciata da sempre, innanzitutto dallo Slai cobas per il sindacato di classe, di “25 anni bastano”, in siderurgia e in particolare a Taranto dove ha anche un valore risarcitorio.
Siamo inoltre per riduzione d'orario a parità di paga, come rivendicazione generale che vale in periodi di crisi e di emergenza non solo per l'ex Ilva ma per tutte le realtà industriali in crisi in Italia.

Per ottenere questi risultati ci vuole una lotta vera, una trattativa vera. E questa non si può fare se gli operai non hanno una propria rappresentanza sindacale di classe autonoma realmente da padroni, governo e dalle attuali direzioni sindacali confederali – che purtroppo hanno fallito e la bandiera della difesa dell'accordo del 6 settembre 2018 è un'arma spuntata.
Solo la presenza e la rappresentanza Slai cobas sc è in grado di difendere, pressare e influire sulla situazione verso un accordo migliore per i lavoratori.
L'Usb non è più questo tipo di sindacato. La scelta suicida della “chiusura della fabbrica” sotto la definizione ipocrita di “chiusura delle fonti inquinanti”, pone l'Usb alla coda dell'ambientalismo antioperaio e antindustriale e del suo utilizzatore finale, il sindaco di Taranto, Emiliano, gli ingannapopolo degli M5S, ecc., che lungi dal tutelare la salute e la città associano gli operai alle responsabilità dei padroni per gli effetti dannosi sulla salute e l'ambiente e pretendono, cancellando la fabbrica e i lavoratori, di risolvere il problema, trasformandoci in una nuova Bagnoli, in una terra dell'assistenza e dell'economia parassitaria.
La strada del cambiamento in fabbrica e in città passa per l'unità tra classe operaia e masse popolari.
TA. 11.3.20
SLAI COBAS per il sindacato di classe
via L. Andronico, 47 TA - slaicobasta@gmail.com – 3475301704 – blog tarantocontro

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