domenica 6 aprile 2014

Ilva, 4,3 miliardi costi previsti nel nuovo piano industriale... ma chi li mette?


Nel nuovo piano industriale che la gestione commissariale dell’Ilva si accinge a presentare ci sarebbero due novità: la previsione dei costi sale da 3 a 4,3 miliardi di euro e l’ambito temporale nel quale il piano si colloca non va più sino al 2016 ma arriva al 2020.

A far aumentare i costi sarebbero nuovi investimenti. Il piano industriale, si apprende da fonti aziendali, è sostanzialmente pronto ma non può essere ancora reso noto, stando all’ultima legge Ilva-Terra dei Fuochi (la n.6 del 6 febbraio), se prima non viene ufficializzato il piano ambientale, che precede quello industriale. Approvato con Dpcm una decina di giorni fa il piano ambientale attende che la Corte dei Conti ne completi l’esame per essere pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale”.
Nel piano industriale dell’Ilva di prossima presentazione da parte del commissario Enrico Bondi la parte attinente agli investimenti dell’Aia (l’Autorizzazione integrata ambientale) è rimasta sostanzialmente stabile con una previsione costi di 1,8 miliardi. Ciò che invece sarebbe aumentata, portando gli oneri complessivi da 3 a 4,3 miliardi, sono gli investimenti nella sicurezza sul lavoro, valutati in circa 700 milioni di euro, e la possibilità di produrre a Taranto il preridotto di ferro che oggi invece l’Ilva acquista dall’estero.
Un discorso, quest’ultimo, che è collocato nella prospettiva post 2016. In sostanza, l’Ilva effettuerebbe gli investimenti del risanamento ambientale – peraltro già avviati con circa 500 milioni tra spesa e impegni sino a gennaio scorso – entro la metà del 2016, anche perchè due leggi, la n. 6 del 2014 su Ilva-Terra dei Fuochi e la n. 89 del 2013 sul commissariamento dell’azienda in quanto attività strategica, fissano 36 mesi di tempo, da agosto 2013, per la cosiddetta ambientalizzazione e l’adozione delle prescrizioni dell’Aia rilasciata dal ministero a ottobre 2012.
Si sposterebbe invece nella seconda parte del piano industriale il consolidamento a Taranto della nuova tecnologia di produzione. L’uso del preridotto di ferro e del gas al posto, rispettivamente, dell’agglomerato di minerali e del carbon coke fu annunciato dal sub commissario dell’Ilva, Edo Ronchi, nell’incontro con la commissione Ambiente del Comune di Taranto sul finire dello scorso autunno. Da allora, è partita nel siderurgico una sperimentazione che è progressivamente andata avanti e che ha interessato le acciaierie e in seguito gli altiforni, compreso il 5 che e’ il più grande d’Europa.
Il ricorso al preridotto di ferro è stato poi presentato dall’azienda sia negli incontri con i sindacati metalmeccanici, che in un convegno svoltosi ai primi di novembre a Taranto con i ministri Andrea Orlando (Ambiente) e Beatrice Lorenzin (Salute). Le prove fatte dall’Ilva hanno dato riscontro positivo e sino a tutto il 2015 è previsto che si proceda con la sperimentazione del preridotto. L’Ilva si è data un obiettivo: produrre con questo sistema 2,5 milioni di tonnellate sugli 8 milioni che costituiscono la quota massima di produzione assegnata dall’Aia allo stabilimento tarantino. Il punto, adesso, è che fare dopo la sperimentazione.
Già in un documento consegnato ai sindacati mesi fa, l’Ilva affermava che a partire dal 2017 avrebbe esaminato la possibilità di produrre a Taranto, o in altra area competitiva per i costi, il preridotto oggi acquistato all’estero. Ora, nel piano industriale, si pone appunto questo problema nella seconda parte temporale dello stesso piano. Ma usare il preridotto di ferro in forma strutturale richiede che si affrontino anche i nodi della fornitura di gas al siderurgico e dell’impatto sulle attuali attività di stabilimento. Stando ai documenti aziendali e ai modelli già seguiti da altre siderurgie europee, se il preridotto riduce l’uso dell’agglomerato di minerali, c’e’ bisogno anche di gas per ridurre l’utilizzo di carbon coke e oggi l’Ilva non dispone di forniture di gas correlate a questa necessità. Solo unendo preridotto e gas, infatti, si hanno vantaggi sul piano gestionale e soprattutto la riduzione delle emissioni inquinanti che è la chiave di volta che spinge l’Ilva a fare l’investimento.
Inoltre, aumentando la quota di preridotto e usando il gas, si riduce il peso, nelle attività di stabilimento, sia dell’agglomerato, dove appunto avviene la preparazione dei minerali da caricare negli altiforni, che delle cokerie che “sfornano” il carbon coke usato sempre negli altiforni. E se agglomerato e cokerie sono impianti inquinanti, è anche vero che qui lavorano centinaia di addetti la cui ricollocazione bisognerà pure discutere.
Il piano industriale dell’Ilva fa salire i costi complessivi di oltre un miliardo, da 3 a 4,3, sia pure allargandosi al 2020, e pone ovviamente l’interrogativo di chi finanzierà la spesa. E’ più che evidente, infatti, che l’Ilva oggi non ha assolutamente le risorse per affrontare un’operazione del genere. Prova ne sono le difficoltà che stanno attraversando le imprese appaltatrici, che operano all’interno del siderurgico, o dell’indotto, che sono all’esterno.
Entrambe lamentano ritardi nei pagamenti che a loro volta, denunciano i sindacati, si ripercuotono automaticamente sulla corresponsione degli spettanze ai dipendenti. Diviene allora sempre più stringente l’aumento di capitale dell’azienda che l’ultima legge finalizza al risanamento ambientale.
“Dobbiamo partire al più presto con l’aumento di capitale – afferma il sub commissario Edo Ronchi – i tempi sono diventati stretti per cui presentazione del piano industriale e avvio dell’aumento di capitale saranno praticamente in sequenza”. Resta sempre in campo l’ipotesi del prestito ponte da 500 milioni, ma i commissari dell’azienda sarebbero orientati a porre subito il problema del futuro dell’azienda, consapevoli del fatto che se la proprietà dei Riva non dovesse partecipare all’aumento di capitale, ci sono già altre manifestazioni di interesse, nazionali ed estere, verso l’Ilva. “Ce ne sono diverse” precisa Ronchi.
Ed è indicativo il fatto che qualche giorno fa l’ad del gruppo Marcegaglia, Antonio Marcegaglia, abbia posto il tema dell’Ilva indicando la necessita di salvare e rilanciare la siderurgia nazionale ma anche la filiera dell’acciaio essendo lo stesso Marcegaglia un utilizzatore del prodotto. Quasi un appello, quello di Marcegaglia – così almeno viene interpretato – perchè gli industriali italiani del settore, in cordata tra loro, siano della partita. Ma ci vogliono troppi soldi per l’Ilva? Sicuramente 4,3 miliardi sono un costo rilevante, ma è anche vero che giorni fa proprio a Taranto un ex ministro ed ex banchiere come Corrado Passera ha detto: “Se il piano industriale dell’Ilva è credibile e rende l’azienda sostenibile anche dal punto di vista ambientale e sanitario, i soldi si trovano”. (Agi)

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