di Roberto Ciccarelli - Su Il Manifesto
«Qui mi sento morto. La persona che ero una volta non esiste più. Dicono che siamo in Europa, ma mi sembra che qui si viva peggio di molti posti in Africa. Questa è la periferia invisibile dell’Europa» dice A, 30 anni, arrivato dal Niger, oggi si ritrova nelle campagne lucane al servizio dell’agro-capitalismo. «Il nostro problema è il caporalato, non la ricerca di lavoro. Perché se per esempio trovi un lavoro per 50 euro a giornata, devi darne 15 al caporale che ti ha messo in contatto con il datore di lavoro e che ti garantisce il trasporto verso il luogo di lavoro», racconta M. che viene dal Sudan e ha 39 anni.
Sono le storie raccolte dal rapporto «Vite a giornata. Precarietà ed esclusione nelle campagne lucane» presentato ieri a Matera da Medici Senza Frontiere. Tra luglio e novembre 2019 ha offerto cure mediche e orientamento socio-sanitario in sette insediamenti informali in Basilicata. A Palazzo San Gervasio a Mulini Matinelle, nel comune di Venosa, ad esempio, dove in estate la baraccopoli è riempita anche da 500 persone. Oppure tra le rovine del complesso industriale dismesso dell’ex Felandina nelle vicinanze di Metaponto. Prima che lo sgomberassero erano spuntate 800 persone, molte delle quali erano rifugiati politici sudanesi sgomberati da via Scorticabove a Roma.
Medici Senza Frontiere ha censito almeno duemila braccianti stagionali migranti in Basilicata. Come
in Puglia, in Calabria, e poi al Nord, anche qui sopravvive un popolo che vive randagio tra baracche e casolari sperduti, tra i rifiuti con i roditori e infezioni. Sopravvissuti, senza corrente né acqua.
«Bere, lavarsi o andare in bagno qui diventa complicato. Ma non ho altra scelta. Se ci manderanno via da qui non so cosa farò. Non so dove andrò” racconta K.,di anni 21, nato in Guinea Conakry. È il destino di questi senza meta, ridotti all’invisibilità e perseguitati da tutte le leggi sull’immigrazione. E dai «decreti Salvini» che hanno abolito il permesso di soggiorno per motivi umanitari e hanno comportato la chiusura di molti centri di accoglienza.
Il medico Gianluca Granà ha raccontato la storia di un 24enne: «Si è presentato con un problema dermatologico per il quale abbiamo sospettato una neoplasia in stato avanzato ed abbiamo inviato una richiesta per una visita specialistica presso il dipartimento delle malattie infettive di Matera. Sfortunatamente però il paziente non si è presentato alla visita e si è spostato in un’altra regione per lavorare nei campi. Abbiamo fatto altri tentativi ma non siamo più riusciti a rintracciarlo». Il ragazzo non poteva farsi controllare da un ortopedico perché aveva la tessera sanitaria scaduta. E, probabilmente, ha pensato di evitare altri controlli perché gli mancavano altri documenti. È scomparso, preferendo convivere con la malattia.
Su 910 braccianti visitati da Medici senza Frontiere solo il 43% possedeva una tessera sanitaria. Nemmeno un permesso di soggiorno valido basta ad ottenerla. Non potendo avere una residenza, in molti casi è impossibile anche farsi curare. E questo è accaduto anche a chi vive in Italia da otto anni. «Un paziente di 29 anni con una grave impotenza funzionale ai polsi dovuta a calcificazioni ossee e aggravata dal lavoro nei campi, non ha potuto ricorrere a una visita specialistica perché la sua tessera sanitaria era scaduta e non poteva recarsi nella precedente località di residenza per rinnovarla» ha raccontato Granà.
«Quando raccolgo i pomodori mi pagano 4,50 o 5 euro a cassa, una cassa contiene 300 chili di pomodori. In un giorno riesco a raccogliere fino a 25 casse. Quando torno a casa [insediamento informale] sono stanco morto ed ho male in tutto il corpo. Mi lavo con una tanica di acqua, mangio e vado a dormire. Il giorno dopo si ricomincia» ha raccontato A., 28enne del Ghana. Le conseguenze sono: infiammazioni muscolo-scheletriche, problemi gastrointestinali e respiratori, dermatiti e reazioni allergiche sono le patologie più ricorrenti in questo lavoro devastante. E poi ci sono 51 casi di malattie croniche come diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari, respiratorie e nefrologiche, identificate per la prima volta durante le visite mediche.
Negare la residenza, impedire le cure, mantenere vite nella precarietà assoluta. Questa è la strategia per creare i pària nelle città e nelle campagne. E sono queste le conseguenze: «Per un anno ho vissuto all’ex-Felandina – ha raccontato M., sudanese di 39 anni – Trovare una casa in affitto è difficile. Quando sentono che sei straniero ti dicono che la casa è già stata affittata. Ho fatto richiesta di cittadinanza e spero di averla presto. Ogni posto dove vado lo sgomberano, spero che non mi caccino pure da qua».
In un intervista MSF denuncia:
"Il più grande insediamento in cui siamo stati impegnati in questi mesi è un’area industriale abbandonata, la ex Felandina, che si trova a circa 3 km dal centro abitato, il comune di Bernalda, dove è situato l’accesso più vicino all’acqua potabile. Nella ex fabbrica non c’è un sistema di raccolta rifiuti, che non possono essere smaltiti. Non c’è elettricità e quindi le persone che hanno il diabete, ad esempio, non possono rispettare la terapia. Non hanno modo di conservare l’insulina, che necessita di determinate temperature. In questi luoghi esistono quindi grosse difficoltà abitative, ma anche a seguire le cure mediche.
Le leggi sulla sicurezza votate dal precedente governo hanno avuto qualche effetto sulla condizione dei braccianti?
Abbiamo incontrato diverse persone che avevano il permesso per motivi umanitari e sono state costrette improvvisamente a uscire dai centri di accoglienza in cui vivevano. L’unica alternativa che si sono trovate davanti è stata andare ad abitare negli insediamenti informali.
Perché avete intitolato il rapporto «Vite a giornata»?
Perché le vite di queste persone si svolgono alla giornata sia dal punto di vista abitativo che lavorativo. Giorno per giorno devono procurarsi acqua potabile per lavarsi e un impiego per avere dei soldi. Non hanno alcuna possibilità di programmare la loro esistenza. Neanche qualche giorno più in là.
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