martedì 28 gennaio 2020

Da dove vengono i migranti - cosa succede in Libia

Migranti. Libia Nei centri di detenzione continua l'orrore


Altri tre eritrei sono morti nei centri di detenzione: sono 40mila in attesa di protezione internazionale                 


Un'immagine scioccante dimostra le condizioni nel centro di Bani Walid
Un'immagine scioccante dimostra le condizioni nel centro di Bani Walid

Tre migranti morti a Tripoli per ricordare alla comunità internazionale che in Libia oltre 40mila persone aspettano di venire liberate dai centri di detenzione ufficiali e di ricevere protezione. Tutti e tre i morti sono eritrei, nazionalità che consentirebbe loro di avere asilo nella Ue e persino in Libia, dove non è riconosciuta la convenzione di Ginevra sui rifugiati. Invece sono rinchiusi arbitrariamente a tempo indeterminato, malnutriti e senza cure mediche. Tre morti senza un perché che ancora una volta squarciano il velo sulla tragedia dei migranti nei centri e per le strade.
Adal Debretsion è morto il 12 gennaio nel lager di Sabha. Aveva solo 16 anni e, confermano i rifugiati della diaspora eritrea in Italia, veniva da Elabered, città vicina a Keren, dove c’è un cimitero militare italiano. Era scappato da solo tre anni fa, a 13 anni. Era un piccolo minore non accompagnato che non voleva venire arruolato, hanno assicurato i compagni di prigionia al quotidiano britannico "Guardian," nel servizio di leva a vita che continua ad essere inflitto ai
giovanissimi dal regime nonostante da un anno e mezzo sia in vigore l’accordo di pace con Addis Abeba. Raccontano che la madre di Adal abbia mendicato in questi anni per trovare i soldi per i riscatti chiesti dai trafficanti quando ancora bambino aveva raggiunto la Libia dal Sudan per la prima volta nel 2017. Ha provato invano ad attraversare il Mediterraneo nel 2018, ma la guardia costiera tripolina, guidata dai miliziani che spesso sono trafficanti, lo ha ripreso e riportato a Tarik al Sikka e poi a Sabha, due centri di detenzione governativi di Tripoli. Qui l’adolescente aveva filmato con lo smartphone le proteste dei detenuti che chiedevano aiuti ed evacuazione girando i video ad attivisti e giornalisti. Nessuno conosce le cause esatte della morte, in due settimane di agonia - durante le quali non si è più risvegliato - ha ricevuto solo antidolorifici e non è mai stato visitato. I medici dell’Oim, l’organizzazione internazionale per le migrazioni, hanno ammesso più volte che il conflitto in corso ha impedito loro di entrare nei centri. E nell’intervista concessa ad "Avvenire" il capo missione in Libia dell’Acnur, l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati, Jean Paul Cavalieri ha affermato che da novembre e dicembre le visite ai prigionieri sono state impedite. Secondo il report della scorsa primavera (quindi ancora prima dello scoppio del conflitto) dei medici di Msf a Sabha un detenuto su quattro risultava malnutrito e malcurato. In altri centri come Zintan vi sono state decine di decessi per tubercolosi. L’igiene è assente, mancano quasi ovunque acqua potabile e cibo, scarseggiano i bagni e i detenuti non possono lavare biancheria e vestiti. Inoltre nei centri di Tripoli i detenuti fanno da scudi umani perché le milizie governative vi hanno stipato armi e munizioni. Come scritto sabato da Nello Scavo su questo giornale, riprendendo le denunce degli stessi migranti e dell’Unicef, a diversi detenuti, anche minori, sarebbe stato proposto l’arruolamento tra i difensori della capitale contro le milizie del generale Haftar. Il quale a sua volta avrebbe arruolato migranti. Per i 3.000 detenuti ufficialmente in prigione, l’unica speranza è che arrivi la pace e i centri vengano chiusi.

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