Il sostituto procuratore generale della Cassazione Paola Filippi ha chiesto un terzo processo per i sei imputati del rogo del 6 dicembre 2007 in cui morirono sette operai. Boccuzzi: “Fulmine a ciel sereno”
C’è chi ha gridato “venduti” ai giudici, mentre madri, sorelle e mogli di chi era rimasto coinvolto nel rogo sono scoppiate a piangere. Il sostituto pg della Cassazione, Paola Filippi, ha chiesto di annullare le condanne per tutti e sei gli imputati del processo Thyssen, per rideterminare le pene per i reati di omicidio colposo plurimo e per rivalutare il ‘no’ alle attenuanti per quattro degli imputati. Per il pg serve un nuovo processo di appello.
Il rogo nello stabilimento della
ThyssenKrupp di corso Regina Margherita
a Torino scoppiò la notte tra il 5 e il 6
dicembre 2007. Morirono sette operai.
Una lunga e straziante agonia: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino e Antonio Schiavone se ne andarono nell’arco di venticinque
giorni.
Sei dirigenti dell’acciaieria sono stati prima
indagati e poi processati a Torino. Si tratta dell’amministratore delegato di
Thyssen, Harald Espenhahn, dei dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz, il
membro del comitato esecutivo dell’azienda Daniele Moroni, l’ex direttore dello
stabilimento Raffaele Salerno e il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri.
I magistrati torinesi Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso
hanno contestato l’omicidio volontario, accusa che ha retto in primo grado ma
non in appello, dove è stata derubricata a omicidio colposo aggravato dalla
colpa cosciente. Il 24 aprile 2014 i giudici della Cassazione hanno confermato
la responsabilità degli imputati ma annullato una parte della sentenza di
Appello, ordinando ai giudici torinesi di ricalcolare le pene.
Nel processo d’Appello bis, che si è chiuso il
29 maggio 2015, le pene sono state ridotte. Espenhahn è stato condannato a nove
anni e otto mesi, con uno “sconto” di due mesi; Pucci e Priegnitz a sei anni e
dieci mesi (sette anni), Moroni a sette anni e sei mesi (nove anni), Salerno a
otto anni e sei mesi (pena ridotta di due mesi), Cafueri a sei anni e otto mesi
(otto anni). Già chiusa,
invece, la contesa che riguarda i risarcimenti: ai famigliari delle vittime
ThyssenKrupp ha pagato 13 milioni; altri 4 sono andati alle altre parti civili.
L’accaieria di Torino, dopo l’incidente del 6 dicembre 2007, non ha mai più
riaperto.
LA STORIA
La ThyssenKrupp è un’azienda tedesca, la più
importante in Europa nel settore siderurgico. Nel 1994 ha acquistato la Acciai
Terni, allora di proprietà pubblica, e con essa gli stabilimenti di Terni e
Torino.
Lo stabilimento di Torino viene presto ritenuto
poco funzionale; ThyssenKrupp decide di concentrare la produzione a Terni e
pianifica di chiudere la fabbrica di corso Regina Margherita nel 2005. Il
progetto, però slitta anche a causa di una serie di imprevisti. Nel luglio del
2007 i sindacati e l’azienda firmano un accordo che sancisce la chiusura
definitiva entro il settembre del 2008. La prima linea di cui si ipotizza la
chiusura è la numero 5, quella su cui si verificherà l’incidente.
L’INCIDENTE
La notte tra il 5 e 6 dicembre, prima dell’una,
sette operai al lavoro sulla linea 5 vengono investiti da una fuoriuscita di
olio bollente, che prende fuoco. I Vigili del fuoco, la cui caserma dista poche
centinaia di metri, arrivano quasi subito: è l’1,15. I feriti vengono trasferiti
in ospedale. Alle 4 del mattino muore il primo operaio: si chiama Antonio
Schiavone, ha 36 anni. Tra il 7 e il 30 dicembre ne muoiono altri sei: Giuseppe
Demasi, 26 anni; Angelo Laurino, 43 anni; Roberto Scola, 32 anni; Rocco Marzo,
54 anni; Rosario Rodinò, 26 anni; Bruno Santino, 26 anni. Tra gli operai
coinvolti nell’incidente c’è solo un superstite: Antonio Boccuzzi, dipendente
Thyssen da 13 anni e sindacalista della Uilm; oggi è deputato del Pd. - un venduto, carrierista e speculatore -come sostengono operai della Thyssen e familiari -ndr
L’incendio si sviluppa all’altezza della linea
di ricottura e decapaggio. La produzione dell’acciaio sulla linea 5 si svolgeva
così: l’acciaio passava attraverso un laminatoio, costituito da alcuni cilindri
che lo schiacciavano riducendone l’altezza; poi veniva avvolto in fogli di carta
per evitare che si graffiasse e accumulato per poi passare alle fasi di
ricottura e decapaggio.
La prima fase – il procedimento definito «a
freddo», anche se avviene a più di mille gradi – prevede di far passare
l’acciaio in un forno e cuocerlo a una temperatura inferiore a quella di
fusione. Nella seconda fase l’acciaio cotto viene fatto passare dentro vasche
piene di acido per rimuovere le ultime impurità.
L’intero procedimento è considerato ad alto
rischio d’incendio. le misure di sicurezza prevedono estintori, sistemi di
spegnimento automatico e un particolare addestramento per il personale. Per
mantenere le lastre lubrificate si utilizza olio combustibile altamente
infiammabile, che spesso impregna spesso la carta che avvolge le lastre. Prima
del processo di ricottura la carta va eliminata. Il problema - si scoprirà dopo
l’incidente - è che la manutenzione scarseggia e spesso i residui di carta si
accumulano lungo la linea. Basta una scintilla perché la carta prenda fuoco.
Senza contare le frequenti perdite d’olio, che formavano pozzanghere sotto i
macchinari.
Poche ore prima del rogo si verifica un piccolo
incidente. La linea viene fermata. Poi l’impianto riparte. Che cosa succede
dopo? Probabilmente da una delle linee che trasportano l’acciaio si scatena una
serie di scintille che incendiano la carta oleata accumulata sotto la linea e
mai rimossa. Si sviluppa un incendio. Gli operai - che si trovano al sicuro in
una cabina protetta da cui seguono la lavorazione - escono per spegnerlo.
Uno di loro, si allontana per
collegare una manichetta all’idrante che i suoi colleghi impugnano. Ma
l’incendio si alimenta delle chiazze di olio, le fiamme si alzano, sfiorano uno
dei tubi che portano ad altissima pressione l’olio per lubrificare. Il tubo si
rompe e l’olio comincia a fuoriuscire. La pressione crea una pioggia di gocce
scagliate ad alta velocità che generano una palla di fuoco che investe tutti gli
operai. L’effetto è quello di un gigantesco lanciafiamme.
LE INDAGINI
Dopo il rogo, lavoratori e sindacati denunciano una
situazione da tempo fuori controllo. Nei
giorni precedenti all’incidente la fabbrica si trova a corto di personale perché
alcuni operai sono stati licenziati mentre altri già trasferiti a Terni. Quelli
rimasti sono costretti a turni pesantissimi e agli straordinari per mantenere
continua la produzione. Le testimonianze degli altri operai
accorsi sul luogo dell’incidente parlano di estintori scarichi, telefoni
isolati, idranti malfunzionanti, assenza di personale specializzato. Non solo:
alcuni degli operai coinvolti nell’incidente lavoravano ininterrottamente da
dodici ore, avendo accumulato quattro ore di straordinario.
Oltretutto procura e vigili del fuoco scoprono
che nei mesi passati si sono verificati alcuni piccoli focolai causati da
scintille che incendiavano la carta oleata, gestiti dagli operai senza mai
avvertire il 115. Soprattutto scoprono che l’azienda sconsigliava apertamente
agli operai di premere il pulsante che avrebbe portato all’arresto della linea:
in quel caso, infatti, l’acciaio sui nastri si sarebbe bloccato nel forno per la
ricottura o nelle vasche di acido, diventando inutilizzabile. La notte
dell’incidente nessuno bloccò la linea, fatto rilevante secondo la procura di
Torino, emblematico del clima che si respirava in fabbrica: a febbraio del 2008
la linea 5 sarebbe stata chiusa, le misure di prevenzione e sicurezza erano
state abbandonate da tempo.
La ThyssenKrupp nega subito qualsiasi
responsabilità. Accusa gli operai morti di avere provocato l’incidente, causato
da una serie di distrazioni o omissioni. Poi aggiusta il tiro e parla di «errori
dovuti a circostanze sfavorevoli». Durante le indagini la Guardia di Finanza
sequestra all’amministratore delegato Espenhahn un documento riservato che critica
pesantemente anche il pm Guariniello e l’allora ministro del Lavoro del governo
Prodi, Cesare Damiano, considerato troppo vicino ai lavoratori.
I PROCESSI
Le indagini si chiudono in meno di un anno: il
17 ottobre 2008 la procura chiede il rinvio a giudizio per sei dirigenti
dell’azienda. Il 18 novembre il giudice dell’udienza preliminare Francesco
Gianfrotta dispone il processo per tutti e accoglie le tesi dell’accusa: il
reato contestato è omicidio volontario con dolo eventuale e incendio doloso.
«Pur rappresentadosi la concreta possibilità del
verificarsi di infortuni anche mortali, in quanto a conoscenza di più fatti e
documenti e accettando il rischio del verificarsi di infortuni anche mortali
sulla linea 5», scrive Gianfrotta, i dirigenti avrebbero causato la morte dei
sette operai omettendo «di adottare misure tecniche, organizzative, procedurali,
di prevenzione e protezione contro gli incendi». Il processo comincia nel
gennaio del 2009. Sfilano i testimoni: lavoratori, sindacalisti. Emergono nuovi
particolari: non solo le misure di sicurezza erano state ridimensionate, non
solo le manutenzioni erano pressoché inesistenti ma la fabbrica veniva pulita
solo in corrispondenza alle visite dell’Asl. E l’impianto si fermava solo in
caso di guasti gravi, altrimenti si interveniva con la linea in movimento.
Il primo luglio del 2008 la ThyssenKrupp versa
quasi 13 milioni alle famiglie dei sette operai morti, che non si costituiscono
parte civile. Nell’aprile 2011 il Tribunale di Torino condanna in primo grado
Espenhahn, a 16 anni e 6 mesi per omicidio volontario. Pucci, Priegnitz, Cafueri
e Salerno a 13 anni e 6 mesi. Moroni a 10 anni e 10 mesi. Nel febbraio 2013 la
Corte d’Appello ha respinto in secondo grado l’ipotesi di omicidio volontario,
condannando gli imputati - stavolta per omicidio colposo - a pene comprese tra 7
e 10 anni. L’anno successivo la Cassazione dichiara accertato il rato ma rinvia
gli atti a Torino perché le pene vengano rideterminate. Il 29 maggio 2015 la
Corte d’Appello di Torino emette una nuova sentenza, quella che ora è all’esame
della Cassazione.
Lo stabilimento di Torino della ThyssenKrupp non
esiste più. È stato chiuso nel marzo del 2008 con un accordo tra la
ThyssenKrupp, i sindacati, le istituzioni locali e i ministeri del Lavoro e
dello Sviluppo economico, in anticipo sulla data prevista.
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