«Per adesso siamo cosa? Siamo degli angeli con la voglia di vivere». Quando la bara di Arcangelo De Marco si avvia verso il sagrato di Maria SS. Immacolata, si stagliano veritiere le frasi di un grande manifesto che campeggia sulla bella facciata della chiesa. Le note e la voce struggente di Vasco Rossi, sembrano dare voce a chi non l’ha più e forse non l’ha mai avuta. E’ la voce del lavoro, della fatica senza ritorno a casa. È pressante l’interrogativo di Vasco: “Ci fosse stato un motivo per stare qui, ti giuro sai, sarei rimasto qui..” Ma Arcangelo, il bracciante agricolo di 42 anni, deceduto l’altro ieri dopo un mese di coma, dopo avere avvertito un malore nei campi nel metapontino, di motivi per vivere ne possedeva tanti: la famiglia, gli amici, gli amori, la musica, il mito come Vasco.
Quanto è stato maltolto a questo sfortunato giovane che quella mattina del 5 agosto aveva indossato all’alba i vestiti della fatica senza farvi più ritorno? Disgrazia, fatalità, la tragedia, sono le pesanti parole che ancora non trovano una risposta esaustiva, anche se giammai sarà tale per la famiglia che ieri, nella compostezza e nella dignità più grandi di chi non ha mai avuto nulla se non dietro il cambio della fatica, umile e pulita, ha cercato di nascondere l’immane squarcio di dolore, lievemente addolcito dalla presenza di quanti si sono voluti stringere attorno. Oltre ai familiari più stretti c’erano gli amici di Arcangelo, i compagni di lavoro, soprattutto donne incredule ma quasi portatrici di un messaggio comune: la consapevolezza di avere dato tanto e raccolto poco. Come quella annate storte per la vigna dove gli operai lottano caparbiamente, chicco dopo chicco, nella speranza di non buttare via nulla perché il pane da portare a casa è sacro!
Sopportando le tribolazioni e anche le umiliazioni. Il mondo “invisibile” quella dimenticato troppo in fretta della “città rurale” è tornato d’un balzo in prima fila, pronta a far raccontare di sé ma ci è voluto il sacrificio. Ancora se però, forse, non tutti se ne sono accorti: ieri c’erano il sindaco, Giorgio Grimaldi, l’assessore al bilancio Pietro Venneri a rappresentare l’amministrazione comunale. Di solito per altre cerimonie cittadine solenni si contano solo i pochi assenti. È confortante il saluto rispettoso che il comandante della Compagnia dei Carabinieri di Martina Franca, il capitano Giovanni Piscopo e il comandante della stazione di San Giorgio Jonico, il maresciallo Adriano Meleleo, portano alla salma, insieme al comandante della Polizia Municipale Franco Tria e a tutti gli uomini e le donne della Protezione Civile.
In chiesa c’è il gonfalone della casa municipale a identificare in un unico abbraccio, dopo la giornata di lutto cittadino proclamato dallo stesso sindaco. Poi la Santa Messa nelle parole del parroco don Giancarlo Ruggieri: «qualsiasi possa essere la circostanza e il modo in cui viene a mancare una persona giovane, si tratta sempre e comunque di una immane tragedia che toglie il respiro e lascia tutti senza parole. È convinzione comune che un giovane, come Arcangelo, non può e non deve morire. La morte di una persona cara è difficile da accettare ad ogni età. Ognuno quando se ne va, lascia un vuoto che appare immenso e incolmabile quando ad essere stroncata è una giovane vita, la fine di una esistenza nel fiore dei suoi anni, mette in crisi chiunque: credente e non credente, non lascia indifferente nessuno».
Non un parola del parroco sulle responsabilità di queste morti... E' bello dire parole alate ai funerali e tacere quotidianamente sullo sfruttamento che le provoca!
Il giovane parroco è commosso e dedica il primo pensiero alla famiglia: «soprattutto i genitori che vedono la vita di un figlio stroncata da questa tragica ed imprevista circostanza, sperimentano un dolore che lascerà in loro un segno indelebile per tutta la vita». Ma il realismo, duro e sconvolgente, lascia il posto alla speranza. «In questo momento il dolore di papà Cosimo, della sorella Gina con suo marito Roberto, ma in modo particolare il dolore di mamma Anna. Un dolore “innaturale” perché la natura vuole che muoiano prima i genitori dei figli. Quando muore un figlio si entra davvero in un mistero fitto». E più che dire «Dio piange – esprime la bellezza del pensiero, don Giancarlo – un pianto che ci sconcerta, ci scuote, ci smuove. Davanti ad un Dio che condivide, il nostro cuore si convince, ci converte. Arcangelo conclude questa esistenza come l’amico di Gesù Lazzaro, la chiude cosi come l’ha vissuta, da buono, generoso e laborioso».
E non dimentica Paola, il parroco, che ricorda come «da questa perdita come quella di Paola Clemente noi tutti dobbiamo imparare qualcosa: i nostri anziani quando lavoravano nei campi si alzavano il mattino presto, lo facevano con gioia, seduti sui carretti con cui intraprendono la via tortuosa dei campi, cantando i canti dell’amicizia, sapendo che insieme si lavorava con passione, affinché sulla tavola di nessuno mancasse il profumo del pane. Il lavoro ha sempre reso libero l’uomo e mai schiavo, della cupidigia, del denaro, di se stesso perché sfrutta la terra smettendo di amarla. E chi paga il prezzo di tutto questo? Coloro che non alzano più il mattino con lo spirito dei nostri avi che non hanno più voglia di cantare canti di amicizia perché sanno che se non vanno come gira questo povero mondo rimangono ai margini e senza pane sulla tavola. La luce della certezza torni a rinfrancare i nostri cuori e donarci gioia di pace e di serenità».
Nessun commento:
Posta un commento