Quarantuno
pagine per spiegare i motivi che hanno determinato la conferma del
maxi-sequestro da 8,1 miliardi di euro effettuato nell’ambito
dell’inchiesta “Ambiente svenduto”.
Quarantuno pagine per spiegare le ragioni che hanno indotto a non modificare un provvedimento che va ad incidere su beni nella disponibilità di “Riva Fire” e “Ilva SpA”.
Quarantuno pagine per ribadire gli elementi fondanti di un impianto accusatorio che ha travolto vertici e manager dello stabilimento siderurgico, gli stessi che sono in attesa dell’ultimo atto del procedimento: la notifica degli avvisi della conclusione delle indagini. Un atto che dovrebbe concretizzarsi entro la fine di questo mese, a meno di imprevisti. Il tutto mentre ieri il Tribunale del Riesame di Taranto presieduto dal dott. Alessandro de Tommasi (a latere il dott. Massimo De Michele ed il dott. Benedetto Ruberto) ha depositato le motivazioni che hanno fatto da sfondo al rigetto dell’istanza di dissequestro degli oltre 8 miliardi di euro finiti sotto chiave lo scorso maggio. Una somma rilevantissima, una somma che, stando a quanto sostenuto dalla pubblica accusa, corrisponde al profitto che sarebbe stato realizzato negli anni passati dall’azienda e che (sempre secondo i magistrati titolari dell’inchiesta) si sarebbe dovuto impiegare per rendere ecocompatibili gli impianti del colosso siderurgico e, di conseguenza, impedire il disastro ambientale ipotizzato dalla Procura del Tribunale di Taranto. Prendendo in esame gli elementi probatori acquisiti dagli inquirenti, i giudici del Riesame hanno rilevato che Emilio Riva era “al corrente di tutte le gravi lacune e disfunzioni che caratterizzavano e che continuano a caratterizzare lo stabilimento a livello di prestazioni ambientali, come emerso ad esempio dal suo interessamento, accertato in base ad alcune conversazioni intercettate, alle vicende legate allo stabilimento jonico”. Ma non basta. A giudizio del Tribunale, l’ex presidente del CdA dell’Ilva era “a conoscenza delle iniziative adottate da Girolamo Archinà, ex responsabile dei rapporti istituzionali dell’azienda siderurgica, “tese a pilotare l’azione dei pubblici poteri a vantaggio di Ilva”, come risulta da una telefonata del 28 giugno 2010 tra Emilio Riva e il figlio Fabio nella quale i due “commentano la richiesta di incidente probatorio appena notificata e utilizzano espressioni sintomatiche di una indebita conoscenza della relazione integrativa che avrebbero dovuto depositare i consulenti tecnici dei pubblici ministeri.” Nel provvedimento si legge che “di significativo rilievo appare anche la sottoscrizione da parte di Riva Emilio, della missiva inoltrata all’onorevole Pierluigi Bersani, all’epoca segretario del Partito Democratico, per lamentarsi del comportamento del senatore Della Seta, esponente del medesimo partito, il quale aveva pubblicamente commentato negativamente il fatto che, con decreto legislativo approvato il 13.08.2010, il Governo avesse inteso prorogare, sino al 01-01-2013, l’entrata in vigore del valore-limite di concentrazione del benzo(a)pirene nell’aria, pari a 1 nanogrammo per metro cubo”. A parere dei giudici queste circostanze evidenziano la pienezza dei poteri esercitati da Emilio Riva anche quando non era più il rappresentante legale dell’azienda. Ma non è finita. Il Riesame ha pure posto in risalto che “nel corso delle indagini è emersa l’esistenza di una sorta di governo aziendale occulto (non ufficiale) operante all’interno dello stabilimento Ilva di Taranto, una struttura ombra costituita da soggetti denominati ‘fiduciari’, non inquadrati nell’organico di Ilva Spa ma riconducibili direttamente alla proprietà ed alla famiglia Riva”. Il Tribunale ha messo nero su bianco che alcuni di questi ‘fiduciari’ “funzionalmente dipendenti di altre società del gruppo Riva, sono ufficialmente distaccati all’interno dello stabilimento, con deleghe di funzioni; altri, funzionalmente dipendenti delle suddette ulteriori società del gruppo Riva, non sono ufficialmente impiegati presso Ilva Spa”. Tra questi ultimi anche “un direttore ombra dello stabilimento” mentre “altri ancora operavano operano all’interno dello stabilimento come consulenti esterni”. Dalle deposizioni di testimoni si è appreso che “i fiduciari di fatto governavano il siderurgico, impartendo le necessarie disposizioni, occupando alloggi nella provincia di Taranto che risultavano formalmente ‘uffici in attività’ della Riva Fire Spa, essendo dunque lo strumento di controllo della proprietà sulla vita dello stabilimento (avendo il compito effettivo di verificare l’operato dei dipendenti assicurandosi che fossero rispettate le logiche aziendali)”. Secondo i giudici del Riesame “sussistono certamente le condizioni per ascrivere anche alla società controllante (la Riva Fire spa, ndr) la responsabilità giuridica per i fatti-reato commessi nell’ambito della gestione della società controllata (Ilva Spa ndr), sulla base dei presupposti individuati dalla Suprema Corte”. Secondo il Riesame, quindi, la gestione dello stabilimento Ilva di Taranto, è di fatto, “a prescindere dalla formalità delle cariche societarie, nelle mani della famiglia Riva”. In particolare di colui che viene indicato come il dominus del gruppo: Emilio Riva. Che, sempre ieri, è stato raggiunto da una richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura di Milano per una presunta frode fiscale.
Intanto, preso atto di quanto motivato dal Tribunale, Riva Fire e Riva Forni Elettrici hanno inteso diramare una nota con cui commenta le decisioni dell’organo giudicante. «Le motivazioni rese note oggi (ieri per chi legge, ndr) dai giudici a sostegno del rigetto del ricorso presentato lo scorso 15 giugno relativamente alla disposizione di sequestro preventivo di beni Riva Fire e Riva Forni Elettrici non possono che rafforzare la nostra valutazione di illegittimità del provvedimento». «Le motivazioni» prosegue il commento «ricalcano un impianto accusatorio basato sulla pura presunzione di atti e eventi che, in assenza di un normale iter processuale, non trovano concreti riscontri».
«A questo punto» concludono le due società «non possiamo che augurarci che finalmente si voglia procedere con la normale prassi giudiziaria nei tempi più brevi possibili, fiduciosi che la giustizia possa fare il proprio corso, riconducendo la vicenda nei giusti contorni».
Quarantuno pagine per spiegare le ragioni che hanno indotto a non modificare un provvedimento che va ad incidere su beni nella disponibilità di “Riva Fire” e “Ilva SpA”.
Quarantuno pagine per ribadire gli elementi fondanti di un impianto accusatorio che ha travolto vertici e manager dello stabilimento siderurgico, gli stessi che sono in attesa dell’ultimo atto del procedimento: la notifica degli avvisi della conclusione delle indagini. Un atto che dovrebbe concretizzarsi entro la fine di questo mese, a meno di imprevisti. Il tutto mentre ieri il Tribunale del Riesame di Taranto presieduto dal dott. Alessandro de Tommasi (a latere il dott. Massimo De Michele ed il dott. Benedetto Ruberto) ha depositato le motivazioni che hanno fatto da sfondo al rigetto dell’istanza di dissequestro degli oltre 8 miliardi di euro finiti sotto chiave lo scorso maggio. Una somma rilevantissima, una somma che, stando a quanto sostenuto dalla pubblica accusa, corrisponde al profitto che sarebbe stato realizzato negli anni passati dall’azienda e che (sempre secondo i magistrati titolari dell’inchiesta) si sarebbe dovuto impiegare per rendere ecocompatibili gli impianti del colosso siderurgico e, di conseguenza, impedire il disastro ambientale ipotizzato dalla Procura del Tribunale di Taranto. Prendendo in esame gli elementi probatori acquisiti dagli inquirenti, i giudici del Riesame hanno rilevato che Emilio Riva era “al corrente di tutte le gravi lacune e disfunzioni che caratterizzavano e che continuano a caratterizzare lo stabilimento a livello di prestazioni ambientali, come emerso ad esempio dal suo interessamento, accertato in base ad alcune conversazioni intercettate, alle vicende legate allo stabilimento jonico”. Ma non basta. A giudizio del Tribunale, l’ex presidente del CdA dell’Ilva era “a conoscenza delle iniziative adottate da Girolamo Archinà, ex responsabile dei rapporti istituzionali dell’azienda siderurgica, “tese a pilotare l’azione dei pubblici poteri a vantaggio di Ilva”, come risulta da una telefonata del 28 giugno 2010 tra Emilio Riva e il figlio Fabio nella quale i due “commentano la richiesta di incidente probatorio appena notificata e utilizzano espressioni sintomatiche di una indebita conoscenza della relazione integrativa che avrebbero dovuto depositare i consulenti tecnici dei pubblici ministeri.” Nel provvedimento si legge che “di significativo rilievo appare anche la sottoscrizione da parte di Riva Emilio, della missiva inoltrata all’onorevole Pierluigi Bersani, all’epoca segretario del Partito Democratico, per lamentarsi del comportamento del senatore Della Seta, esponente del medesimo partito, il quale aveva pubblicamente commentato negativamente il fatto che, con decreto legislativo approvato il 13.08.2010, il Governo avesse inteso prorogare, sino al 01-01-2013, l’entrata in vigore del valore-limite di concentrazione del benzo(a)pirene nell’aria, pari a 1 nanogrammo per metro cubo”. A parere dei giudici queste circostanze evidenziano la pienezza dei poteri esercitati da Emilio Riva anche quando non era più il rappresentante legale dell’azienda. Ma non è finita. Il Riesame ha pure posto in risalto che “nel corso delle indagini è emersa l’esistenza di una sorta di governo aziendale occulto (non ufficiale) operante all’interno dello stabilimento Ilva di Taranto, una struttura ombra costituita da soggetti denominati ‘fiduciari’, non inquadrati nell’organico di Ilva Spa ma riconducibili direttamente alla proprietà ed alla famiglia Riva”. Il Tribunale ha messo nero su bianco che alcuni di questi ‘fiduciari’ “funzionalmente dipendenti di altre società del gruppo Riva, sono ufficialmente distaccati all’interno dello stabilimento, con deleghe di funzioni; altri, funzionalmente dipendenti delle suddette ulteriori società del gruppo Riva, non sono ufficialmente impiegati presso Ilva Spa”. Tra questi ultimi anche “un direttore ombra dello stabilimento” mentre “altri ancora operavano operano all’interno dello stabilimento come consulenti esterni”. Dalle deposizioni di testimoni si è appreso che “i fiduciari di fatto governavano il siderurgico, impartendo le necessarie disposizioni, occupando alloggi nella provincia di Taranto che risultavano formalmente ‘uffici in attività’ della Riva Fire Spa, essendo dunque lo strumento di controllo della proprietà sulla vita dello stabilimento (avendo il compito effettivo di verificare l’operato dei dipendenti assicurandosi che fossero rispettate le logiche aziendali)”. Secondo i giudici del Riesame “sussistono certamente le condizioni per ascrivere anche alla società controllante (la Riva Fire spa, ndr) la responsabilità giuridica per i fatti-reato commessi nell’ambito della gestione della società controllata (Ilva Spa ndr), sulla base dei presupposti individuati dalla Suprema Corte”. Secondo il Riesame, quindi, la gestione dello stabilimento Ilva di Taranto, è di fatto, “a prescindere dalla formalità delle cariche societarie, nelle mani della famiglia Riva”. In particolare di colui che viene indicato come il dominus del gruppo: Emilio Riva. Che, sempre ieri, è stato raggiunto da una richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura di Milano per una presunta frode fiscale.
Intanto, preso atto di quanto motivato dal Tribunale, Riva Fire e Riva Forni Elettrici hanno inteso diramare una nota con cui commenta le decisioni dell’organo giudicante. «Le motivazioni rese note oggi (ieri per chi legge, ndr) dai giudici a sostegno del rigetto del ricorso presentato lo scorso 15 giugno relativamente alla disposizione di sequestro preventivo di beni Riva Fire e Riva Forni Elettrici non possono che rafforzare la nostra valutazione di illegittimità del provvedimento». «Le motivazioni» prosegue il commento «ricalcano un impianto accusatorio basato sulla pura presunzione di atti e eventi che, in assenza di un normale iter processuale, non trovano concreti riscontri».
«A questo punto» concludono le due società «non possiamo che augurarci che finalmente si voglia procedere con la normale prassi giudiziaria nei tempi più brevi possibili, fiduciosi che la giustizia possa fare il proprio corso, riconducendo la vicenda nei giusti contorni».
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