Un’Ilva
più piccola, su misura dei gruppi imprenditoriali interessati ad
acquistarla alla scadenza del commissariamento – alcuni dei quali già si
sono fatti avanti. Questo è lo sbocco che Vincenzo Comito, docente di
Finanza Aziendale all’Università di Urbino, intravede come esito della
strategia di Bondi e dei suoi referenti politici. Di recente Comito ha
curato (insieme a Riccardo Colombo) il più completo studio economico
realizzato finora su Ilva e gruppo Riva (L’Ilva di Taranto e cosa farne,
Edizioni dell’Asino, 2013). Con lui abbiamo voluto scandagliare le
prospettive (e i rischi) che si aprono di fronte al più grande gruppo
siderurgico del paese, allo stabilimento di Taranto e ai suoi
lavoratori.
Per il risanamento dello stabilimento di Taranto occorreranno diversi miliardi. Al momento
pare che in buona parte saranno attinti attraverso l’accensione di
nuovi prestiti. Come lei e Colombo avete rilevato, tuttavia, questo
rischia di provocare l’esplosione dell’indebitamento della società. La
strategia perseguita da Bondi è sostenibile?
La domanda è più complessa di quanto
sembri. Partiamo dal punto fondamentale: quanti soldi servono per il
risanamento ambientale? Nella nostra stima si parlava di 3,5/4 miliardi
di Euro, prospettando il risanamento dello stabilimento così com’è,
senza una significativa contrazione di capacità produttiva. Adesso
sembra che Bondi stia lavorando a un’operazione del tutto diversa: lui
stima la ristrutturazione ambientale in 1,5/1,8 miliardi di Euro.
Secondo noi perché ha in mente un sostanziale ridimensionamento dello
stabilimento. A questo ridimensionamento è collegato l’interesse che
sembrano manifestare alcuni imprenditori italiani che non avrebbero le
risorse per rilevare l’Ilva così com’è, né per finanziare i costi del
risanamento. Ma ridimensionando l’Ilva noi come Italia ridimensioniamo
la nostra presenza nel settore e rischiamo di scomparire in un mercato
nel quale vanno affermandosi grandi complessi mondiali.
A questo proposito, nelle scorse
settimane si è affacciata l’ipotesi di una cordata di imprenditori
italiani disposti ad acquisire Ilva alla fine del periodo di
commissariamento. Se ne è fatto promotore, dalle colonne di Repubblica,
Beniamino Gavio e la prospettiva è stata rilanciata dal segretario
generale della UILM, Rocco Palombella [Corriere del Giorno, 21/11/2013,
p. 7]. La ritiene un’ipotesi credibile?
Gavio come imprenditore del settore
siderurgico non lo vedo assolutamente. Siamo sempre nel film già visto
dei “capitani coraggiosi”, che sappiamo come finisce. Si era parlato
anche di qualche imprenditore italiano dell’acciaio, ma il punto è
sempre lo stesso: l’affare potrebbe andare in porto solo se Ilva avesse
una scala ridotta rispetto a quella attuale. Per acquisire e gestire
Ilva così com’è ci vorrebbero infatti tali risorse finanziarie e
manageriali e un tale potere di mercato che oggi in Italia più nessuno è
in grado di garantire.
Lei invece quale opzione propone?
Una parziale nazionalizzazione
dell’azienda – e nella sostanza ci siamo, per via dei sequestri ordinati
dalla Magistratura –, che dovrebbe essere l’antefatto per la ricerca di
un grande partner straniero – presumibilmente asiatico – in grado di
dare una prospettiva globale a Ilva, tutelando i livelli occupazionali e
la permanenza degli impianti. In Francia in questo momento si sta
parlando di una soluzione analoga per la Peugeot: nel capitale della
società entrerebbe al 30% lo Stato francese e al 30% un’azienda cinese
del settore. E’ esattamente questo il modello che suggerisco per Ilva.
Quando si parla di nazionalizzazione
in genere si deve far fronte con due ordini di obiezioni: 1) lo Stato
non ha le risorse; 2) l’Europa non lo permetterebbe. Si può rispondere a
tali questioni?
Anzitutto, l’azienda ha subito il
sequestro di buona parte degli impianti e di 8 miliardi di Euro. Non so
dal punto di vista giuridico come si possa passare alla confisca, ma
sostanzialmente Ilva potrebbe essere già dello Stato. Per quanto
riguarda gli investimenti, non è vero che non ci sono risorse: questo è
il solito alibi per non fare cose necessarie. Le risorse per cancellare
l’IMU invece le hanno trovate. Lo Stato potrebbe agire sia direttamente,
tramite il bilancio pubblico, sia attraverso Cassa Depositi e Prestiti.
Riguardo all’Europa, non c’è nessuna direttiva che impedisca di avere
imprese pubbliche. Di sicuro ci sarebbero burocrati di Bruxelles che non
la prenderebbero bene, ma l’esito della partita dipenderebbe dal modo
in cui i nostri rappresentanti li affronterebbero.
Qualche giorno fa l’ASSOFERMET, associazione dei commercianti di prodotti siderurgici, ha dichiarato
che, se Taranto chiudesse, si avrebbe un significativo rincaro dei
prezzi di quei beni. Tale affermazione richiama l’annosa questione della
sovracapacità produttiva che affligge la siderurgia a livello globale.
Alla luce di questo ci si potrebbe domandare: c’è ancora posto per Ilva
nel mercato dell’acciaio?
Il mercato non è un’entità astratta. Lo
spazio ce lo si conquista con le risorse manageriali e finanziarie, con
la capacità di fare investimenti e di costruire rapporti con i
consumatori. Il mercato siderurgico sicuramente sta attraversando una
fase molto critica, ma ci sono sempre spazi per chi è capace. Bisogna
poi sgomberare il campo da un altro mito: che la siderurgia sia un
settore da paesi del terzo mondo. Basti guardare al caso della Germania,
che continua ad essere il primo produttore europeo: le sue imprese –
Thyssen Krupp su tutte – conservano quote di mercato importanti. Di
contro, la siderurgia italiana – a causa delle crisi che hanno investito
Taranto, Piombino, Terni e altre realtà minori – rischia di scomparire. (Siderlandia)
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