Oggi la uil con una riunione e quattro imbecilli fascisti di Taranto con una messa cercano di ricordare le "foibe", per mistificare ciò che è realmente successo.
CHI VOLESSE REALMENTE CONOSCERE LA STORIA, C'E' UNA MOSTRA DOCUMENTATA A DISPOSIZIONE NELLA SEDE DELLO SLAI COBAS DI VIA RINTONE, 22 TARANTO.
Giacomo Scotti
10 febbraio, Giorno del Ricordo.
Ecco il racconto del contesto che gli italiani non conoscono: dal «fascismo di frontiera» degli anni ’20, dai crimini dell’Italia in Jugoslavia, dai 100.000 jugoslavi deportati e internati, alle violenze jugoslave del settembre ’43 e maggio ’45, fino all’esodo italiano
Inizio con tre brani di un discorso pronunciato al Teatro Ciscutti di Pola da Benito Mussolini il 20 settembre 1920, dando inizio alle brutali violenze contro le popolazioni della Venezia Giulia: «Qual è la storia dei Fasci? Essa è brillante! Abbiamo incendiato l’Avanti! di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata di Trieste, l’abbiamo incendiata a Pola…»…«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini italiani devono essere il Brennero, il Nevoso e le (Alpi) Dinariche. Dinariche, sì, le Dinariche della Dalmazia dimenticata!… Il nostro imperialismo vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e vuole espandersi nel Mediterraneo. Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche».
Dopo quel discorso, l’Istria fu messa a ferro e fuoco. Venti anni dopo quel discorso le truppe di Mussolini invasero Dalmazia, Slovenia e Montenegro, dando inizio a nuove stragi in nome della civiltà italiana. Dalle terre annesse all’Italia dopo la prima guerra mondiale – cioè all’ampliamento ad est dei territori di Trieste e di Gorizia, all’Istria intera, alla provincia di Fiume detta del Quarnaro ed all’enclave dalmata di Zara – le violenze fasciste e la snazionalizzazione forzata costrinsero ad andarsene più di 80.000 sloveni, croati, tedeschi e ungheresi, ma anche alcune migliaia di italiani antifascisti
Nel 1939, un anno prima che l’Italia fosse gettata nella seconda guerra mondiale, le autorità fasciste della Venezia Giulia attuarono in segreto un censimento della popolazione di quelle terre annesse venti anni prima, accertando che in esse vivevano 607.000 persone, delle quali 265.000 italiani e cioè il 44%, e 342.000 slavi detti allogeni, ovvero il 56%. Una cifra notevole nonostante l’esodo degli ottantamila, nonostante che agli slavi fossero stati italianizzati i cognomi, fosse stato vietato di parlare la loro lingua, fossero state tolte le scuole e qualsiasi diritto nazionale. Nonostante le persecuzioni subite, nonostante che migliaia di loro fossero finiti nelle carceri o al confino, e che alcuni dei loro esponenti – Vladimir Gortan, Pino Tomazic ed altri – fossero stati fucilati in seguito a condanne del Tribunale speciale fascista oppure uccisi dalle squadre d’azione fasciste a Pola (Luigi Scalier), a Dignano (Pietro Benussi), a Buie (Papo), a Rovigno (Ive) e in altre località istriane.
Emblematici di queste persecuzioni contro slavi e antifascisti italiani in Istria e Venezia Giulia sono i sistemi coercitivi per inviare i contadini al lavoro nelle miniere di carbone di Arsia-Albona dove, per duplicare la produzione senza però adeguate protezioni dei minatori sui posti di lavoro, nel 1938 ci fu una tragedia (allora taciuta dalla stampa) in cui persero la vita 180 minatori, lasciando oltre mille vedove ed orfani. Emblematica di quel periodo in Istria è anche una canzoncina cantata dei gerarchi che diceva:
A Pola xe l’Arena/ la Foiba xe aPisin: butaremo zo in quel fondo/ chi ga certo morbin.
E alludendo alle foibe, un’altra poesiola minacciava chi si opponeva al regime:
… la pagherà/ in fondo alla Foiba finir el dovarà.
Aprile 1941, l’aggressione
Nell’aprile del Quarantuno, infine, si arrivò all’aggressione alla Jugoslavia senza dichiarazione di guerra, seguita dall’occupazione di larghe regioni della Slovenia e della Croazia, dall’intero Montenegro e del Kosovo, infine dall’annessione al Regno d’Italia di una grossa fetta della Slovenia ribattezzata Provincia di Lubiana, di una lunga fascia della costa croata che formò il Governatorato della Dalmazia con tre provincie da Zara fino alle Bocche di Cattaro, e la creazione della nuova provincia allargata di Fiume detta “Provincia del Quarnaro e dei Territori annessi della Kupa” comprendente tutta la parte montana della Croazia alle spalle del Quarnero più le isole di Veglia ed Arbe che si univano a quelle di Cherso e Lussino. Così l’Italia incorporò nel proprio territorio nazionale regioni abitate al 99% da sloveni e croati con una popolazione di oltre mezzo milione di persone che si aggiungevano al 342.000 “allogeni” già assoggettati all’Italia ed al fascismo italiano da due decenni. Il Montenegro intero fu trasformato a sua volta in un Governatorato italiano. Il Kosovo, territorio della Macedonia, fu annesso invece alla cosiddetta Grande Albania che già dal ’39 era una colonia dell’Italia.
Le violenze contro i civili dei territori annessi o occupati furono compiuti in base a “una ben ponderata politica repressiva” come ci rivela una ben nota circolare del generale Roatta del marzo 1942 nella quale si legge: “il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, ma bensì da quella testa per dente”. A sua volta il generale Robotti, ordinando rastrellamenti a tappeto nel giugno e agosto 1942, indicava queste soluzioni alle truppe dell’XI Corpo d’Armata:“internamento di tutti gli sloveni per rimpiazzarli con gli italiani” e per “far coincidere le frontiere razziali e politiche”: “esecuzione di tutte le persone responsabili di attività comunista o sospettate tali”. Infine, “Si ammazza troppo poco!”.
Mi limiterò a un piccolo territorio alle spalle di Fiume e ad un solo mese, luglio del 1942. Nelle borgate di Castua, Marcegli, Rubessi, Viskovo e Spincici furono incendiate centinaia di case e fucilate decine di persone come «avvertimento». Nel Comune di Grobnik, il villaggio di Podhum fu completamente raso al suolo per ordine del prefetto Temistocle Testa. All’alba del 13 luglio, per “vendicare” due fascisti scomparsi il giorno prima da quel villaggio, furono dapprima saccheggiate e poi incendiate 484 case, portati via mille capi di bestiame grosso e 1300 pecore, deportati nei campi di concentramento in Italia 889 persone (412 bambini, 269 donne e 208 uomini anziani) e fucilate altre 108 persone. Uno sterminio.
I fascisti italiani, passati al servizio del tedeschi dopo il settembre 1943, continuarono a battersi “per l’italianità” dei territori ceduti al Terzo Reich. Fra tanti sia ricordato l’episodio di Lipa (30 aprile 1944) dove 269 vecchi, donne e bambini sorpresi quel giorno in paese, furono sterminati: parte fucilati, parte rinchiusi in un edificio e dati alle fiamme. Di tali eccidi ce ne furono a centinaia in Istria, nel territorio quarnerino, in Slovenia, in Dalmazia, in Montenegro, ovunque arrivarono i militari fascisti e le altre formazioni inviate da Mussolini.
Nei miei scritti ho documentato lo sterminio di 340.000 civili slavi fucilati e massacrati dall’aprile 1941 all’inizio di settembre 1943 nel corso dei cosiddetti “rastrellamenti” ed operazioni di rappresaglia contro le forze partigiane insorte. Ho anche scritto, ma non sono stato il solo in Italia, di altri 100.000 civili montenegrini, croati e sloveni deportati nei capi di concentramento approntati dalla primavera all’estate del 1942 dall’esercito italiano per rinchiudervi vecchi, donne e bambini colpevoli unicamente di essere congiunti e parenti dei “ribelli”. In quei campi disseminati dalle isole di Molat e Rab/Arbe in Dalmazia fino a Gonars nel Friuli ed altri in tutto lo Stivale, morirono di fame, di stenti e di epidemie circa 16.000 persone nel giro di poco più di un anno di deportazione. Tutto questo viene taciuto nella Giornata del Ricordo che si celebra in Italia da una decina d’anni. Si ricordano soltanto le nostre perdite: il dolore dei nostri connazionali costretti a lasciare le terre concesse all’Italia dopo la prima guerra mondiale, il dolore delle famiglie degli infoibati nel settembre 1943 in Istria e nel maggio 1945 a Trieste, Gorizia e Fiume subito dopo l’ingresso delle truppe di Tito. È giusto, è doveroso ricordare foibe ed esodo, le nostre vittime, i nostri dolori, ma non si dovrebbero tacere il contesto storico, le colpe del fascismo che portarono alla sconfitta ed alla perdita di quelle regioni. Non si dovrebbero tacere o volutamente ignorare le vittime delle popolazioni slave oppresse, martoriate e decimate dapprima nel ventennio fascista in Istria ed a Zara, ma soprattutto nella seconda guerra mondiale. Sulla bilancia e nel contesto storico vanno messi, dunque, anche i dolori che noi abbiamo arrecato agli altri.
La retorica e la canea mediatica
In un saggio sul Giorno del Ricordo pubblicato nel 2007, l’autorevole storico italiano Enzo Collotti scrisse sull’argomento parole da non dimenticare, denunciando l’enfatizzazione di «una retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del nostro passato, né ad elevare il nostro senso civile, ma – cito – alimenta ulteriormente il vittimismo nazionale», dando «ai fascisti e postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti ed omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili». Collotti condanna in particolare la «canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili», che non permette di «fare chiarezza intorno a un modo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini» compiuti dai fascisti.
Per Colottti, le vicende delle foibe e dell’esodo ci riportano «alle origini del fascismo nella Venezia Giulia», una regione definita italianissima da chi non vuole accettare la realtà di un territorio multietnico e «trasformato in un’area di conflitto interetnico dai vincitori» della prima guerra mondiale, «incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi», anzi decisi ad estirpare anche con lo spargimento di sangue qualsiasi presenza non italiana. Calpestando le tradizioni della cultura italiana, il fascismo impose alle nuove terre — così come tentò di fare nei territori balcanici occupati nella seconda guerra mondiale – «una italianità sopraffattrice», rivelando il suo volto criminale, suscitando la legittima rivolta di quei popoli e trascinando l’Italia nel dramma della sconfitta. Un dramma di cui non fu vittima, ma protagonista. «I paladini del nuovo patriottismo d’oggi, fondato sul vittimismo delle foibe – cito sempre Collotti – farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della superiore razza italica». «Che cosa tuttora sa la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata… addirittura da prima dell’avvento al potere: della brutale sua generalizzazione (…) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze?». E della sciagurata annessione al regno d’Italia di una parte della Slovenia e della Dalmazia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediatisi nel cosiddetto Litorale adriatico, sullo sfondo dei forni crematori della Risiera di Trieste e degli impiccati di via Ghega sempre a Trieste, delle stragi in Istria, nel Quarnero, a Pisino e altrove?
L’«era» Mussolini
Il mio sogno, che non è soltanto il mio, è l’istituzione di una Giornata dei Ricordi, al plurale, nella quale poter unire nei loro dolori italiani e slavi, indicando nel fascismo e nel nazionalismo di ambedue le parti i veri colpevoli delle guerre, delle distruzioni, degli eccidi, delle vendette, e degli esodi del passato, additando in essi i pericoli che incombono sul comune futuro di amicizia e cooperazione...
i circoli della destra filofascista in Italia devono smettere di manipolare la storia per rinfocolare odi e rancori. Basta con le accuse degli estremisti al cosiddetto «sanguinario conquistatore» croato, sloveno e slavo in genere, perché non furono quei popoli ad aggredire e invadere l’Italia nel Quarantuno, né ad occupare larghe fette dell’Italia come fecero le truppe di Mussolini in Jugoslavia fino al settembre 1943. Basta con il fascismo di frontiera, antislavo da sempre, ieri come oggi. Basta con il negazionismo aggressivo del neofascismo che cerca di nascondere i crimini della cosiddetta «era» di Mussolini, il periodo peggiore subito dagli istriani, dai fiumani e dai dalmati. Vogliamo rispetto per quelle terre e per le loro popolazioni che ci insegnano la convivenza basata sul reciproco rispetto delle sofferenze passate e sulla reciproca volontà di costruire un migliore futuro comune. Non possiamo accettare atteggiamenti rancorosi di chiusure al futuro, né cedere a un camuffato neoimperialismo — anche culturale — di ritorno che cerca di essere amnistiato con il Giorno del Ricordo delle foibe e dell’esodo delle terre perdute. Auspico che in avvenire, in una plurale Giornata dei Ricordi non si insista sulla contabilità falsata di esodati e vittime, ma si consideri tutto il male del passato, e si agisca perché non si ripeta in futuro in queste terre e nella stessa Italia quella barbarie che ha fatto parte del lungo «secolo breve» qual è stato il Novecento.
* Storico, da Il manifesto del 5 febbraio 2014
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